CAMBIARE – un’esperienza di gruppo attraverso il corpo e gli archetipi

CAMBIARE – un’esperienza di gruppo attraverso il corpo e gli archetipi

Per riconoscere e prevenire la violenza
dr.ssa Isabella Bonapace, dr.ssa Claudia D’Aloisio

Il presente lavoro propone alcuni progetti sviluppati dalle scriventi in diversi contesti sociali del Piemonte: Casa delle Donne di Ivrea, Centri d’Ascolto e di Prevenzione alla Violenza di genere, Casa del Quartiere di San Salvario, per la formazione di gruppi non strettamente terapeutici.

L’intervento prevede un percorso laboratoriale intensivo rivolto alle donne che utilizza un approccio di tipo psico-corporeo individuale e gruppale in un’ottica di consapevolezza ed empowerment, oltre che di prevenzione alla violenza. Il titolo stesso del laboratorio (cambiare) indica un lavoro che si muove su un percorso di riflessione, consapevolezza che tende al cambiamento allo scopo di poter vedere in uno spazio protetto la propria situazione e sviluppare le capacità per interrompere il ciclo di violenza e dolore.

All’interno di un modello di riferimento psicodinamico che si rifà alla psicologia del profondo di Jung  nell’ambito della psicologia femminile, con riferimento in particolare a due autrici (Marina Valcarenghi e Jean Shinoda Bolen) gli strumenti d’intervento si muovono su due piani: corporeo e psicologico, mantenendo costante il focus sull’integrazione mente/corpo, e vedono l’utilizzo delle tecniche dello Psicodramma, della Danza Movimento Terapia e della Bioenergetica.

Il mito e la storia delle dee greche sono utilizzati come archetipi, ossia modelli di esistenza e di comportamento che riconosciamo dall’inconscio collettivo di Jung: il lavoro sviluppato dall’analista junghiana J.S.Bolen attraverso le dee cosidette ‘vergini e vulnerabili’ è stato la chiave di esplorazione delle forme e dei ruoli femminili, aspetti che mettono in gioco le diverse capacità femminili con particolare attenzione a quelli conflittuali, connessi alla relazione.

Jean S. Bolen, diviene analista junghiana nel periodo dello sviluppo del movimento femminista, tentando di unificare e vedere in ‘prospettiva binoculare’ la psicologia della donna: la donna è vista come un essere preso “tra due fuochi: agito dall’interno, da archetipi di divinità femminili e dall’esterno, da stereotipi culturali”.

I miti, seguendo la prospettiva di Neumann (Amore e Psiche) divengono strumenti di comprensione profonda e allo stesso tempo facili da applicare, narrare ed estendere alle situazioni quotidiane. Gli dei (in questo caso le dee) divengono “prototipi che aiutano la donna a vedere e pensare le divinità agenti dentro di lei” e come modelli predominanti o da sviluppare, senza passare attraverso il maschile, attraverso l’Animus junghiano… la Bolen sistematizza la teoria junghiana dando vita a una psicologia del femminile con una sua dignità, sfaccettatura e fascino.

L’approccio attraverso le dee nei gruppi ci ha spesso permesso di accedere a parti nascoste, sofferenti o completamente egosintoniche di molte donne che mai avrebbero consentito una tale esplorazione, se non forse dopo anni di terapia…

Come sostiene Jung stesso, l’utilizzo del linguaggio simbolico ed immaginativo (archetipico) facilita l’emergere, l’ascolto e la conoscenza delle immagini interne autentiche perché non selezionate e condizionate dal controllo del pensiero logico e razionale.

In particolare, il lavoro nello specifico è stato impostato sulle dee ‘vulnerabili’. Esse impersonano gli archetipi dei ruoli tradizionali della donna (madre, figlia e moglie) orientati al rapporto, la cui identità e il cui benessere dipendono dalla presenza nella loro vita di un rapporto significativo: esse esprimono il bisogno di appartenenza e di legame tipico delle donne, sono sintonizzate sugli altri e pertanto vulnerabili. Nel mito, tutte e tre le dee sono vittime: vengono violentate, rapite e dominate o umiliate da divinità maschili.

L’avvicinarsi a tale caratteristica, ovvero la vulnerabilità, la fragilità (che spesso identifica la donna nel sesso debole…), attraverso la forma delle divinità (splendide e potenti per definizione!) aiuta le partecipanti ad immedesimarsi in un dato ruolo del proprio vissuto, superando la componente della paura di mettersi in gioco, di aprire e condividere una parte indicibile (molte volte impensabile) che è spesso connessa alla violenza…

L’altro importante elemento teorico di riferimento è l’integrazione mente/corpo: attraverso l’attivazione della dimensione consapevole del corpo si favorisce una coscienza di sé radicata nell’esperienza fondata sulla connessione tra sensazioni corporee, vissuti emotivi, immagini e parole.

Utilizziamo lo psicodramma, la Danza Movimento Terapia e la Bioenergetica come tecniche elettive per lo sviluppo delle competenze corporeo-emotive (regolazione emotiva) che attraverso l’attivazione della dimensione consapevole del corpo favoriscono una coscienza di sé radicata nell’esperienza.

Il corpo è quindi luogo elettivo e imprescindibile dell’esplorazione e ricerca di sé.

Infatti negli ultimi decenni le diverse teorie psicoanalitiche sull’intersoggettività (per citarne alcune  Fonagy, Stern, ecc.) e le teorie neuro scentifiche (Damasio, Gallese, ecc), sottolineano come lo sviluppo di un Io-corporeo comporti un complesso lavoro identificatorio, attraverso il meccanismo dell’identificazione imitativa. Essa è un processo che dipende  da “meccanismi di risonanza motoria inconscia basati su proprietà fisiologiche del sistema nervoso” e avviene attraverso l’interpretazione di contenuti verbali ma soprattutto comportamenti manifesti come la postura, il tono della voce, il ritmo del discorso, l’espressione del viso.

In particolar modo Gallese, attraverso il concetto di simulazione incarnata  sottolinea l’importanza dei meccanismi di incorporazione della mente che mostrano quanto l’essere umano sia radicato nel proprio corpo.

La tesi fondamentale è che l’identità individuale si costruisce attraverso l’imitazione, l’empatia e il mentalismo, cioè la capacità di comprendere gli altri in quanto agenti intenzionali, non dipendente esclusivamente da competenze meta-linguistiche, ma dalla natura relazionale dell’azione. Essi sono espressioni di un unico meccanismo profondamente radicato nella genesi somatica, pertanto automatico immediato e inconsapevole. Quindi, per mentalizzare ci vuole l’individuo, cioè un sistema cervello/corpo che interagisce all’interno di un ambiente popolato da altri sistemi cervello/corpo. Anche Damasio mette in evidenza l’azione reciproca del corpo e del cervello che costituiscono un organismo unico e indissociabile: pertanto la ragione non potrebbe funzionare correttamente senza le emozioni, ovvero senza lo stretto collegamento con il corpo che offre costantemente la materia di base con cui il cervello costruisce le immagini da cui origina il pensiero. Uno dei meccanismi che permette di provare emozioni consiste nell’attivazione di un circuito nervoso di tipo come se cioè un circuito di simulazione.

Dunque, un corpo che non è più “altro” rispetto al “logos”: il linguaggio, come ricorda Galimberti (nel libro “Il corpo”) è nato dall’incontro con l’altro, le prime parole seguono i gesti il cui senso è co-costruito da chi li accoglie e li interpreta.

Ci caliamo ora nel lavoro di gruppo, esponendo una tappa del nostro laboratorio CAMBIARE, dal titolo ‘il corpo dice no alla violenza’, un percorso rivolto a donne tra i 25 e i 65 anni presso la Casa delle Donne di Ivrea.

Il lavoro si è incentrato sulle diverse forme e stati che la donna attraversa a partire dal rapporto madre/figlia, analizzandolo attraverso momenti significativi con le proprie madri e figlie, reali e fantasmatiche, ripercorrendo e ‘ricucendo’ ferite e/o ricordi, alla ricerca di nuovi significati.

Dalla costruzione di un gruppo/contenitore dove poter portare e condividere aspetti difficili e sofferenti di sé, sono emersi i temi di lavoro attraverso tre parole chiave, individuate dalle stesse partecipanti: Spazio – Madre – Corpo.

 Lo SPAZIO individua nel lavoro di gruppo un fondamentale bisogno della donna di ritagliarsi uno spazio ‘pulito’ e dedicato, in cui fermarsi e restare con se stessa, al di fuori della moltitudine di compiti e ruoli a cui è chiamata nella vita quotidiana.

Sottolinea inoltre l’importanza dello spazio fisico e mentale, in cui è possibile vivere e condividere il come-se della finzione drammatica come realtà del hic et nunc.

Si entra nel cuore del lavoro sulla MADRE attraverso il rituale madre/figlia che contatta le dee Demetra e Persefone, e si rivela importante per poter rompere le catene di continuità e perpetuazione del ciclo di violenza e dolore.

Raccontiamo il caso di Chiara, ragazza molto giovane, nata in Veneto, che si trasferisce in Piemonte proprio per cercare un ampio ‘spazio’ tra lei e la sua famiglia in particolar modo in seguito all’abbandono precoce della figura paterna che non viene mai nominata, ma si intuisce maltrattante se non addirittura violenta. Dalle poche cose raccontate, perché non possono essere dette, Chiara esprime verbalmente e fisicamente il dolore di un vita difficile, dove la rabbia e le (eventuali?) situazioni di violenza assistita hanno permeato la sua esistenza. La sua voce è esageratamente alta ed intensa, ma incerta che spesso fatica a terminare le parole, un corpo semi-adulto che non sta mai fermo con un bisogno continuo di toccarsi come per poter dire ‘sono viva’ e che presenta evidenti segni di autolesionismo…All’interno del gruppo semi-conosciuto è immediatamente vissuta come una ragazzina giovane parecchio strana e perturbata, molto aggressiva e da tenere a bada: sarà solo con l’avvio del gruppo e la costruzione dell’holding environment (attraverso il rituale) che utilizza gli archetipi della madre e della figlia) che potrà essere avvicinata e finalmente percepita come essere che richiede attenzione e cura al di là di uno stato patologico. Tale lavoro, dopo l’iniziale turbamento di Chiara, aprirà per lei la possibilità di esplorazione della figura materna in un gioco psicodrammatico in cui riuscirà in primis a contattare la rabbia per il non accudimento e la frustrazione costante di una richiesta che non trova risposta da parte della madre super-indaffarata, e successivamente -entrando nel ruolo della madre- a comprendere un po’ di più la necessità di quest’ultima di schermarsi dietro l’affaccendamento frenetico della casalinga per non contattare uno stato di dolore, abbandono e solitudine. È la stessa frenesia che si ritrova forte nell’atteggiamento della Chiara di oggi che può finalmente osservarsi da un altro punto di vista e lentamente collegare il suo stato di iperattività ed ansia alla figura materna.

Nel gioco, Chiara partecipando con i propri sensi e il proprio corpo, stimola i livelli pre-verbali dell’esperienza, i canali di espressione più antichi e profondi, con la possibilità di entrare in contatto con parti di se più profonde, a forte carica affettiva: alla fine del gioco, potrà finalmente contattare il dolore che esprime attraverso il pianto.

Da un punto di vista teorico, vivere il personaggio attraverso la ricostruzione del movimento corporeo, gestuale, della postura e delle espressioni del volto con le relative sensazioni propriocettive, è essenziale per rivivere l’effettiva espressione interiore del personaggio, per farsene una rappresentazione interna.

Ciò permetterà di vivere a Chiara l’insight che le mostra soluzioni diverse e possibili, che prima della scena rivelatrice non sarebbero mai venute in mente (né al protagonista, né al conduttore?) e che poi appaiono di un’evidenza chiarificatrice, e in questo caso accettabile, proprio perché passanti attraverso di sé.

All’interno del percorso Chiara mostrerà una sempre maggiore capacità di integrare i vissuti e le emozioni …il corpo risulterà meno irrequieto acquisendo talvolta un maggior controllo, soprattutto nei lavori di contatto e conoscenza dell’altro e si rivelerà sorprendente la modifica di come viene percepita e accettata dalle altre in seguito all’esperienza, psicodrammatica e non solo, e la sua apertura  ad un’eventuale esplorazione psicologica, mai ammessa prima.

Il caso di Chiara mostra l’importanza del passaggio attraverso il Corpo: come portatore del proprio sé corporeo che ne delinea il proprio essere ‘qui e ora’, come persona diversa ma nello stesso tempo simile alla propria madre, in uno stato in mutamento costante che ne richiama una sempre maggiore attenzione e cura.

Proprio nella parola chiave corpo, s’inserisce il lavoro di Geta che riesce a rompere la barriera di diffidenza e rifiuto attraverso un approccio prettamente fisico che non prevede una richiesta di coinvolgimento personale: aspetto agevolato dal lavoro bioenergetico sulle tensioni e i blocchi muscolari come punti della corazza caratteriale.

La BIOENERGETICA postula il concetto d’identità funzionale tra carattere e atteggiamento muscolare collegato al blocco emozionale: partendo dalle teorie di W. Reich, Alexander Lowen teorizza che: “la funzione unitaria che getta il ponte tra psiche e soma, superando la dicotomia corpo/mente, è il carattere” e costruisce un modello della tensione corporea muscolare che determina l’espressione dell’individuo e si collega alla struttura del carattere.”

La bioenergetica combina il principio dell’attività a livello somatico con la pratica analitica a livello psichico, fondando un metodo terapeutico che tenta di agire laddove i metodi ‘verbali’ non arrivano…

Geta è una giovane rumena, ragazza madre di una piccola di 5 anni, che frequenta saltuariamente la Casa delle Donne e di cui ci viene segnalata dalla responsabile un’ipotetica situazione di violenza che però non viene mai neanche accennata. Si presenta molto adeguata e performativa, ginnica? (con forti aspetti perfezionistici), ma molto diffidente e fa fatica ad entrare in contatto, nonostante un gruppo di donne in gran parte conosciute.. in particolare si nota lo sguardo, molto vigile con aspetti controllanti e distanzianti.

La disponibilità di Geta alla messa in gioco è nulla: sarà possibile avvicinarla solo attraverso un approccio fisico-muscolare che dopo un lavoro bioenergetico prende forma in un forte dolore all’altezza della schiena che la attanaglia da molto tempo, senza trovare riscontro medico-organico.

Il lavoro, condotto con estrema delicatezza e incentrato sul dolore fisico le permetterà di entrare nel gioco  dello psicodramma di isolare questo dolore per esplorarlo un po’ più in profondità. Nel gioco psicodrammatico che si sviluppa, G. chiamerà a personificare tale dolore la co-conduttrice, rivelando così un forte e inconscio bisogno di sicurezza e di risposte… il lavoro pluri-accompagnato permetterà il lento e delicato avvicinamento e collegamento del dolore con una figura maschile, mai nominata ma fortemente percepibile agli occhi di tutto il gruppo riconducibile al padre della figlia potenzialmente violento?… Geta si affaccerà appena a questo collegamento per poi richiudersi e riprendere subito il controllo: pertanto il lavoro è stato calibrato all’interno -e al limite- della finestra di tolleranza.

Il primo percorso fa da apri-pista per Geta che riuscirà molto lentamente ad essere sempre più presente e, pur restando controllante e spesso taciturna, entrerà sempre di più nel lavoro del gruppo riuscendo ad accogliere soprattutto i momenti di contatto e holding (alla fine del percorso esprimerà perfino il bisogno di continuare..).

Nel rituale madre-figlia riuscirà ad accogliere un contatto ‘solo’ oculare ma molto forte e intenso, verbalizzando finalmente la sua difficoltà a lasciarsi andare e ad essere toccata e in un successivo lavoro di stimolazione attraverso la costruzione del ‘corpo del gruppo’, lei rappresenterà la testa, concedendosi però di stare rilassata e accasciata a terra, mentre ammira compiaciuta le altre componenti ormai accettate e vicine: una testa quindi meno controllante e più affettiva…

Nel gruppo i corpi delle partecipanti hanno espresso le difficoltà e anche la sofferenza della propria crescita personale e delle esperienze passate, ri-cercando un contatto e una modalità diversa e più consona ad ognuna all’interno della relazione con se stesse e con l’altro.

Questa metodologia in di uno spazio al femminile si è mostrata idonea ed efficace nel favorire lo sviluppo delle potenzialità e delle competenze personali e sociali delle donne, rivelandosi lentamente un punto di forza a livello di empowerment : la donna infatti si sente più in grado di affrontare certe situazioni e impara (ovvero: comprende nella mente e sente nel corpo..) che non è sola né unica in tali esperienze.

Si è evidenziata l’importanza di un approccio gruppale, corporeo ed emotivo che affronti i temi attraverso una modalità non direttamente terapeutica o già impostata sulla violenza: quest’approccio cosidetto psico-sociale (sottolineando sociale) attraverso il corpo, utilizza la bioenergetica, gli archetipi junghiani, lo psicodramma come potenti strumenti per lavorare sullo stato e la storia della donna, storia che, come i dati indicano in maniera sempre più forte, spessissimo contiene forme (differenziate) di violenza….

Il lavoro costituisce la costruzione di uno spazio di condivisione e contatto in grado di contenere e rispondere alle esigenze di supporto anche per le persone per cui è più difficile elaborare una richiesta di aiuto e di sostegno, consentendo così di raggiungere quell’utenza cosidetta sommersa, per accompagnarla nel delicato lavoro di riconoscimento e consapevolezza, che nel campo della violenza di genere (soprattutto domestica) rappresenta –a nostro avviso- la vera sfida.

 

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