Percorsi psicodrammatici e sociodrammatici con adolescenti ed educatori in comunità terapeutiche di Isabella Bonapace

Il lavoro qui presentato propone alcuni progetti da me condotti in qualità di psicodrammatista sviluppati presso comunità terapeutiche per adolescenti con problematiche psichiatriche, principalmente nell’area dei disturbi della personalità e anche di tipo prepsicotico. L’intervento si inserisce all’interno del Progetto Minori nato nel 1997 gestito dall’associazione Tiarè onlus servizi per la salute mentale, di cui sono socia, nato dalla necessità di offrire alla popolazione adolescente sofferente, uno spazio terapeutico che sapesse coniugare ed affrontare alcune delle specificità psicologico-evolutive che caratterizzano tale periodo dello sviluppo.

Il Progetto Minori si pone l’obbiettivo di avviare e gestire con la collaborazione di cooperative sociali inserite nel territorio piemontese e i servizi sociali competenti, percorsi terapeutici volti al recupero delle autonomie residue, alla loro valorizzazione ed ampliamento, alla garanzia di un contesto relazionale e sociale stabile ed affettivamente saliente nonché alla presa in carico della condizione psicopatologica con esplicite finalità terapeutiche, sia sotto il profilo psicofarmacologico che psicoterapeutico e socioriabilitativo.

Il modello teorico di riferimento adottato dal progetto, è di tipo psicoanalitico interpersonale, con particolare attenzione al costrutto teorico ed alle prassi terapeutiche meglio riconducibili all’approccio denominato Developmental Psychopathology. Si basa sull’assunto che le esperienze interpersonali abbiano un’influenza decisiva sullo sviluppo della personalità e della salute mentale. Si occupa di spiegare come individuo e contesto operino insieme nel produrre modelli adattivi e disadattivi e come essi influenzino lo sviluppo e il funzionamento futuro.

Attualmente Tiarè opera attraverso una rete istituzionale e operativa che coinvolge cooperative sociali nella gestione di comunità terapeutiche per adolescenti con problematiche psichiatriche.

Struttura dei gruppi

Il gruppo di sociodramma/psicodramma è attivo da due anni e si colloca all’interno della vita comunitaria e della strategia terapeutica complessiva diventando uno degli strumenti che l’équipe curante ha a disposizione. Oltre al mio gruppo sono attivi all’interno delle strutture comunitarie altri due interventi psicoeducativi di arte-terapia e di video-terapia.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        Attualmente le comunità in cui opero sono quattro, tre CTM (comunità terapeutica per minori per adolescenti affetti da gravi disturbi comportamentali in fase sub-acuta) e un gruppo appartamento (progetto che prevede l’integrazione di specifici progetti educativi per adolescenti di maggiore età con un intervento clinico mirato alla acquisizione di maggiori competenze per la mentalizzazione). Le modalità d’incontro sono diverse in relazione alle diverse realtà (se si tratta di CTM o di gruppo appartamento) e dal gruppo ragazzi (ogni gruppo costituisce una istanza diversa), hanno una cadenza settimanale di un’ora e mezza/due ore ciascuno e in tutti i gruppi sono presenti gli educatori di turno della struttura.

Nelle CTM, in cui l’intervento clinico ed educativo è orientato alla bonifica del campo relazione comunitario da eccessi di proiezioni e da meccanismi arcaici da parte del minore, il gruppo ha come scopo preliminare la ricomposizione di una esperienza di rete relazione tra i ragazzi e tra i ragazzi e gli educatori.

Nel gruppo appartamento in cui l’intervento clinico-educativo si sviluppa prevalentemente su pazienti che hanno acquisito una funzione egoica più stabile e presentano una minore tensione nel campo relazionale, l’intervento gruppale prevede un setting più sviluppato su una maggiore consapevolezza del disagio, e conseguentemente una maggiore motivazione al trattamento, e quindi una crescente competenza alla mentalizzazione.(per mentalizzazione s’intende l’acquisizione della capacità di cogliere, confrontare ed approfondire le relazioni e le problematiche di matrice gruppale e personale).

I gruppi vengono svolti nei locali delle comunità, solitamente negli spazi comuni come il salone, la cucina o in estate nei cortili o giardini. La scelta degli spazi comuni rientra nella metodologia di intervento comunitario, che presuppone un periodo di vita in comune, fondata su valori di condivisione e confronto, in cui tutto l’ambiente, nella sua globalità, esercita una funzione terapeutica

Anche se l’attività di gruppo è prevista come uno dei momenti istituzionali di comunità in cui il ragazzo è tenuto a partecipare, i gruppi sono pensati come “spazi aperti” nei quali vi è una “contrattazione” quotidiana con i ragazzi per ottenere la loro presenza. Spesso questa contrattazione diviene un “rituale” in cui l’adolescente sottolinea il suo bisogno da un lato di non sottomettersi al volere dell’adulto, di sentire che le regole possono partire da un reciproco accordo adulto-ragazzo, e dall’altro è l’espressione di una sua paura a partecipare ad una attività anche se ludica ma pur sempre trasformativa, sentendosi scoperti, nudi davanti agli altri.

È importante tener presente che lavorare con adolescenti con disturbo psicopatologico è molto complesso e il processo di individuazione tipico dell’adolescente, tutto teso a divenire un soggetto nuovo, a separarsi dalle figure adulte e a rompere i vecchi schemi relazionali è amplificato e distorto. La sofferenza dell’adolescente viene “urlata”, “vomitata” chiedendo da una parte all’adulto di capirla e di raccoglierla dimostrando di non essere spaventato da lui, e dall’altro di non essere soffocato né annientato come persona in divenire. La contrattazione diviene così quello scambio relazione tra l’adulto e il ragazzo, dove la richiesta dell’adolescente è di un adulto disponibile all’incontro, dentro al gioco della relazione, più che mai presente, a portata di mano[1].

Modalità di gestione e di conduzione dei gruppi

Prima del gruppo vero e proprio c’è una fase “pre-gruppale” nella quale vi è un “annusarsi” reciproco tra e me e i ragazzi, una costruzione di tempo, di spazio, di gioco e dell’affidarsi, mettendoci in contatto e in sintonia attraverso i diversi segnali comunicativi. Dal mio arrivo in comunità all’inizio del gruppo possono passare dai 20 ai 40 minuti; spesso mi capita di andare nelle camere dei ragazzi per chiamarli e rimanere con loro nelle proprie stanze a chiacchierare o a guardare insieme dei loro nuovi acquisti, o dei nuovi spostamenti della stanza, o delle loro foto. Oppure di essere “sfidata” a ping-pong con promesse di “sociodrammi a vita!!” nel caso di una vincita da parte loro (questo perché essendo brava nel gioco è per loro difficile battermi, mettendo in risalto la loro ambivalenza nel voler partecipare al gruppo). Molto più frequentemente mi capita di intrattenermi con ragazzi ed educatori fuori dalla comunità a fumare una sigaretta raccontandoci o non raccontandoci nulla, ma semplicemente dandoci il tempo di guardarci e riconoscerci.

È una fase importante e delicata che facilita l’apertura ad uno spazio e ad un tempo di attesa alla nuova esperienza intersoggettiva. Gioco, sguardi, posture del corpo, espressioni verbali, ritmo del discorso aprono a quell’aspetto cruciale del lavoro relazione che nella scuola intersoggettiva e da un punto di vista neurobiologico, viene definita come la condivisione di stati soggettivi tra due o più individui ed il processo mediante il quale l’attività mentale è trasferita da sé ad altri menti (per citare alcuni autori: Stern, Mitchell, Fonagy)[2].

Questa fase pre-gruppale favorisce anche il mio “entrare” lentamente in “casa loro” quasi “in punta di piedi”, senza sfondare la porta e ad impormi come un’ulteriore figura istituzionale venuta a far valere la propria verità. Per l’adolescente l’istituzione in sé è un mostro, una piovra immanente a cui deve adeguarsi, senza possibilità reale d’interazione critica e di opposizione costruttiva, e spesso vissuta come capro espiatorio della sua sofferenza[3].

È importante che il ragazzo mi percepisca come un adulto che se da un lato limita la sua libertà chiedendogli di mantenere fede ad un impegno o di rispettare un orario… al tempo stesso, la favorisce, creando le condizioni per l’espressione spontanea di sé, guardandosi bene dal giudicarlo. Operare all’interno di una istituzione può voler dire a volte condividere le contradditorietà tipiche di tale collocazione ed essere molto lontani dai processi creativi che si cercano di attivare, anteponendo aspetti organizzativi ed amministrativi alle dinamiche interattive ed alle scelte centrate sulla persona.

Non sempre tutti i ragazzi sono presenti all’inizio del gruppo, implicando non pochi problemi per il processo e lo sviluppo del gruppo. Il ruolo di conduttore di gruppi all’interno di strutture comunitarie non è simile per funzioni e stile con quello interpretato in altri gruppi. La relazione con l’adolescente in comunità, obbliga ad un processo creativo, duttile e di adattamento professionale costante; l’attacco al setting, i litigi tra partecipanti, l’arrivo di ragazzi o educatori a gruppo iniziato è ordine del giorno, richiedendo al conduttore una apertura mentale e una sensibilità che con creatività trovi sempre un modo nuovo e diverso di relazionarsi

La scelta della presenza degli educatori nel gruppo permette ai ragazzi ed agli operatori stessi di incontrarsi, utilizzando e sperimentando un modo diverso di relazionarsi scoprendo e condividendo con “l’altro diverso ed uguale a me”, emozioni, pensieri, paure ed aspettative. Il gruppo diventa quello spazio “terzo, transizionale” ad ampio valore emotivo che come sostiene Winnicott[4] permette di essere liberi da finalità esterne e da tensioni, come nella situazione di gioco dà adito a una maggiore curiosità di esplorazione, spontaneità, comportamento nuovo e creativo. Winnicott definì quest’«area intermedia» dell’esperienza umana come «l’area cui ha accesso il bambino e sta fra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla verifica rispetto alla realtà». Lo sviluppo di questo spazio potenziale è essenziale per la futura salute mentale della persona in via di sviluppo. È il luogo dell’adattamento creativo della persona alla propria cultura.

Il ruolo dell’adulto-educatore nel gruppo è quello di evidenziare e trasformare le proiezioni dei fantasmi transferali aggressivi e sessuali dei ragazzi. Spesso l’educatore viene vissuto come un possibile fidanzato/a o un sostituto genitoriale creando non poche confusioni e collusioni sia da parte dei ragazzi che da parte dell’educatore stesso. Esse non vengono mai interpretate verbalmente sul piano fantasmatico, né orientate sull’adulto, ma agite e incanalate in un’azione opportunamente strutturata (un acting-in, in opposizione di un acting-out cioè dell’agito tipico del senza controllo). L’azione si centra nell’assunzione di ruoli e controruoli e tende ad integrare nel qui e ora il principio di realtà con il principio del piacere.

L’adolescente non chiede all’adulto di trasformarsi, di perdere le sue caratteristiche per emulare modi di fare e di essere che non gli sono propri.

Tutto questo comporta l’idea di non avere una immagine stereotipata né dell’adulto né del ragazzo e dei loro bisogni, ma di concepirli come unità dinamiche in evoluzione e modificabili momento per momento nel qui e ora[5].

Il riferimento nel gruppo diventa la relazione di tele, cioè quella corrente affettiva che in modo invisibile e reciproco lega una persona con un’altra, quel legame caratteristico dell’attrazione, repulsione o dell’indifferenza, tra paziente e operatore.

A differenza dell’empatia e del transfert ­­– entrambi fenomeni unidirezionali­­ – la relazione di tele tra paziente e operatore, pone l’accento sulla responsabilità di entrambi i soggetti, senza ricadere sulle spalle dell’operatore con presenza o assenza di empatia o del paziente presenza o assenza di transfert, ma sullo sviluppo della relazione nel qui e ora. In questo modo il soggetto narrante, attraverso lo scambio dei ruoli, entra ed esce dalle scene cioè entra ed esce dal proprio immaginario e dalle immagini interne della propria relazione con l’altro, instaurando un percorso di accomunamento affettivo e simbolico fra tutte le persone che vi partecipano, co-creando un luogo di scambio e di ricerca in cui ognuno diviene regista delle proprie emozioni e soggetto di una azione nuova[6].

Alcuni casi

 Vorrei entrare nello specifico parlandovi di un caso: Giovanna, ragazza straniera arrivata in Italia quattro anni fa sotto un falso nome, ospite del gruppo appartamento dopo aver già trascorso un anno e mezzo in una comunità terapeutica, con stati di angoscia e confusione stabile e una fortissima tensione ad agiti anticonservativi, talvolta di grande rilievo che oltre a portarla a ricoveri ospedalieri prolungati, nel Natale 2006, tenta di porre fine alla sua vita gettandosi sotto una macchina, non ha mai voluto partecipare al gruppo.

Al mio arrivo, solitamente dopo provocazioni verbali, si chiudeva in stanza da sola o con l’educatrice mettendo a volte in atto gesti anticonservativi lievi in modo da attirare la mia attenzione su di lei. C’è voluto quasi un anno per far sì che Giovanna si sentisse pronta ad affrontare il gruppo insieme alla sua educatrice, sentita come un prolungamento di sé, e a ricercare quella sua matrice d’identità, che le permettesse in seguito di venire da sola senza il bisogno costante dell’educatrice.

Il gruppo come “spazio terzo” di semirealtà e l’uso delle funzioni di doppio, di specchio, e dell’incontro tra lei e l’educatrice con gli altri componenti del gruppo, ha permesso a Giovanna la trasformazione della relazione tra lei e sua educatrice di riferimento, spesso distruttiva e soffocante ponendo le basi per una differente modalità di relazione.

Nel gruppo, la funzione di doppio esercitata dall’educatrice, che come una madre nei confronti del proprio bimbo legge ed esprime i suoi bisogni, le ha permesso di scavare dentro di sé sempre più in profondità alla ricerca di immagini, sensazioni, sentimenti rimasti chiusi nella sua interiorità. La funzione di specchio, invece, le ha consentito di cogliere aspetti di sé, nelle immagini relative alla sua persona costruite dagli altri e da lei rimandate per poter finalmente guardare fuori da sé. Infine l’incontro ha rappresentato quello spazio in cui, nella definizione di Moreno, si può creare quel rapporto di reciprocità in cui ognuno riesce a immaginarsi e a sentirsi nei panni dell’altro, nel ritrovarsi nell’essere in contatto fisico, vedersi, osservarsi, comprendersi e conoscersi intuitivamente attraverso il silenzio o il movimento, la parola o il gesto, hanno concorso in modo determinante alla costruzione di una immagine di lei non più così frammentata e negata. Ora Giovanna viene al gruppo da sola, non parla sempre ma è presente; questo è per me un gran successo.

Il metodo da me impiegato è frutto di svariate esperienze maturate nel corso del tempo e in continua verifica e cambiamento ma avendo come perno centrale l’ascolto attivo dei ragazzi stessi. La funzione centrale è quella di permettere il passaggio dal soggettivo all’intersoggettivo, dal dentro al fuori, di essere creativi, di apprendere dall’esperienza, di assumersi responsabilità e di far sperimentare luoghi di pensiero[7].                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        L’uso delle maschere, della musica, di storie raccontate, fanno da cornice al metodo psicodrammatico costituito da momenti di esercizi di riscaldamento, di scene e di condivisione verbale tra i partecipanti.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                Le maschere ad esempio producono un effetto trasformatore di strutturazione e destrutturazione dell’immagine corporea, di accettazione o di rifiuto, fusione o discriminazione del corpo con l’oggetto maschera.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                La maschera indossata può aiutare il processo diagnostico, attraverso la rivelazione di situazioni traumatiche, blocchi, ricordi rimossi potenziali nascosti, oppure fare da oggetto trasformatore producendo un effetto di fusione-integrazione-rottura tra il corpo stesso e il nuovo volto costruendo momenti di trasformazione provocati da questa giustapposizione. L’altro elemento importante della maschera è il suo potenziale comunicativo. Il travestimento, l’occultarsi, il giocare a spiare senza essere visti, a volte lascia andare le inibizioni, lo scambiare qualcosa con un altro sconosciuto, possono avere un carattere più ludico e cavalcare indifferentemente il dramma o la commedia, il festeggiamento o il rituale gruppale[8].

Quando si usano le maschere è importante avere uno specchio a disposizione in modo da potersi specchiare per vedere le trasformazioni in atto. Molto spesso è proprio davanti allo specchio che il primo processo trasformativo si attiva producendo significati simbolici potenti.

Un altro caso è quello di Anna, una ragazza di 16 anni ospite della CTM con gravi maltrattamenti fisici e nutrizionali esercitati dalla famiglia di origine, di abuso sessuale, con agiti autolesionisti e con tentativo suicidiario avvenuto nel 2006. Nel primo incontro di gruppo, Anna sceglie tra le tante maschere una a forma di farfalla molto colorata ed appariscente: la indossa, va a specchiarsi, si fa un enorme sorriso ed esclama: «Mi piace! Sono bella!!». Alla mia domanda su cosa avrebbe avuto bisogno risponde: «Di carne!!». Dopo di che, esce dalla stanza quasi esaltata dalla sua bellezza, per farsi vedere dagli altri educatori rimasti fuori dal gruppo.

Un aspetto del simbolismo della farfalla è basato sulla metamorfosi; la crisalide è l’uomo che ne contiene la potenzialità dell’essere; la farfalla che ne esce è un simbolo di resurrezione, di uscita dalla tomba. Anna indossandola può “incarnare” quel suo desiderio di leggerezza, bellezza, di sovranità anche solo per pochi minuti, il necessario per ora per permettersi di sentire che ciò è possibile. Ancora adesso, dopo 7 mesi circa, a volte prende la maschera, la indossa, si siede con noi in silenzio beata con la sua maschera spiandoci da dietro di essa.

In un’altra comunità ho lavorato con Giacomo, un ragazzino di 11 anni di origine africana con una storia di ripetuti e gravi abbandoni nei quali si è destreggiato con eccezionali capacità, al prezzo della perdita temporanea della propria biografia nel disperato bisogno di un attaccamento efficace e immediato. I suoi ricordi dell’Africa sembrano essere stati spostati in una condizione di traccia onirica, una condizione di memoria “sospesa” che renda più affrontabile la loro esistenza nel suo mondo interno, spostando la questione della propria origine reale ma anche affettiva sugli altri coetanei chiedendo a ogni ospite di conoscere direttamente i propri famigliari. In un incontro in cui bisognava costruirsi o inventarsi un personaggio reale o immaginario con le maschere, Giacomo travestendosi da scimmia, (con connotazioni anche dispregiative di sé..!) inizia a raccontarci delle sue origini africane immergendoci in un paesaggio di luci e colori, degli abitanti e del suo sentirsi diverso nel qui e ora. Attraverso il gioco e la maschera Giacomo ha potuto esprimere una parte di sé affrontando il suo dramma e finalmente parlare di sé e non di altri.

I momenti con le maschere sono molto intensi sia per chi le indossa sia per chi le osserva, il corpo cambia, i gesti si amplificano, le parole emergono definendo nel qui e ora la nuova immagine creata.

Un altro canale di comunicazione importantissimo per i ragazzi è la musica che amplifica o struttura momenti di gioco; spesso chiedo ai ragazzi stessi di portare dei brani musicali per loro significativi e insieme iniziamo il gruppo muovendoci nello spazio ballando, contattandoci con il corpo e lo sguardo.

Questo viene a volte usato come riscaldamento, come momento preparatorio per tirare fuori l’energia emozionale, fisica e intellettuale necessaria per poter sentire, pensare e /o agire una espressione, cercando di abbassare la “guardia dell’ansia”, e trovare quell’atto spontaneo all’incontro.

Conclusioni

Prendersi cura di adolescenti gravemente disturbati, di solito molto distruttivi è un compito molto difficile, fa emergere sentimenti molto problematici nelle persone che lavorano a stretto contatto con loro, perdendo a volte la “lucidità” e l’“equilibrio” di una giusta distanza che permetta una non confusione/collusione con il paziente stesso. Gli operatori spesso provano risposte emotive molto intense nei riguardi dei ragazzi che possono causare un distacco dai pazienti, spogliandoli della loro personalità, raggiungendo una specie di distanza emotiva, come se non fossero umani, o veramente vivi, perdendo di vista la relazione, strumento per loro indispensabile per comprendere il paziente. Il clima conflittuale è tangibile quotidianamente; il dolore espresso dei ragazzi attraverso l’odio, la paura e le resistenze, rispecchiano non solo il loro malessere intrapsichico ma anche nell’essere nel qui e ora in una istituzione da loro rifiutata.

Diventa così fondamentale la costruzione di un luogo “altro” dove l’obbiettivo centrale è quello di migliorare il funzionamento mentale complessivo e la capacità relazionale, mantenendo il conflitto presente, e se necessario evidenziandolo anche con interventi attivi di valore interpretativo in cui le dinamiche interpersonali di gruppo ed istituzionali di pazienti e operatori possano essere apertamente messe in discussione e dove poter introdurre elementi critici atti ad ampliare la conoscenza di sé e la consapevolezza delle proprie modalità di funzionamento, sia adattivo che patologico. Tutto questo deve essere agito all’interno di una esperienza fondata su un contratto con l’adolescente basato sulla fiducia più che sulla condivisione di obiettivi, per permette di far scoprire il “piacere di esserci” di “stare insieme” spogliandosi da pregiudizi per arrivare a riconoscere e ad accettare sia le componenti positive, le qualità, che gli aspetti “ombra”, i difetti dell’altro con cui si è, inevitabilmente, costretti a misurarsi[9].

RIFERIMENTI

[1] Cfr. Mazzara G. (2008), Vite urlate. Adolescenti e psicodramma, FrancoAngeli, Milano.

[2] Stern D.N. (2004), The Present Moment in Psychotherapy and Everyday Life, W.W. Norton & Co., New York (trad. it.: Il momento presente, Raffaello Cortina, Milano, 2005); Mitchell S. (2000), Relationality: From Attachment to Intersubjectivity, The Analytic Press, Hillsdale, NJ (trad. it.: Il modello relazionale, Raffaello Cortina, Milano, 2002); Fonagy P., Gergely G., Jurist E. e Target M. (2002), Affect Regulation, Mentalization, and the Development of the Self, Other Press (trad. it.: Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del sé, Raffaello Cortina, Milano, 2005).

[3] Crf. Mazzara G., Vite urlate,  (cit.). 

[4] Winnicott D.W. (1971), Playing and Reality, Tavistock Publication, London (trad. it.: Gioco e realtà, Armando, Roma, 1974).

[5] Crf. Mazzara G., Vite urlate,  (cit.).

[6] Cfr. Gallo L. (2004), “Psicodramma eterocentrato come sostegno all’io professionale”, Rivista bimestrale di psicologia della comunità Il Porto Onlus, anno 4, n. 21.

[7] Ibidem.

[8] Cfr. Valzania M. (2004), a cura di, “Maschere e identità professionale. Intervista a M. Buchbinder e E. Matoso”, Psicodramma classico, n. 1.

[9] Cfr. Mazzara G., Vite urlate, (cit.).

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